Piacenza ha perso il suo Re: addio a Giorgio Armani
L'infanzia a giocare in Trebbia, da cui aveva imparato cosa fosse l'iconico "grigio-beige", e la laurea honoris causa al Municipale. In mezzo, una vita per la moda

Elisa Malacalza
|3 giorni fa

Giorgio Armani
Oggi è finita un'era. Piacenza dice addio all'uomo che ha insegnato la moda al mondo, portando con orgoglio quel "grigio-beige Trebbia", il fiume dove aveva imparato a nuotare, tra gli abiti iconici delle star di Hollywood ai suoi piedi. Giorgio Armani ha fatto sognare: classe 1934, non era un divo ma era un divino. La scuola all'Alberoni, la prima B al liceo al Respighi prima del trasferimento a Milano, poi le vette del mondo, fino al rientro al Municipale - una specie di testamento, il suo discorso da standing ovation - per la laurea honoris causa dell'Università Cattolica. Fuori, in piazza Sant'Antonino, c'erano le persone di strada, non solo i vip: perché Armani era il figlio eccellente di Piacenza, che dall'Olimpo della moda si commuoveva nel mangiare un piatto di tortelli piacentini. Nel 2020 donò un aiuto a Piacenza in lotta contro il Covid: c'è sempre stato, non solo nella sua "erre" piacentina. Disse che Piacenza si sarebbe rialzata. Lo sapeva perché non ci ha mai lasciati. Lo si capiva dalle rose fresche bianche che non sono mai mancate nella cappella di famiglia al cimitero di Rivalta, a lato dell'ingresso: un vetro, e il marmo grigio. Grigio Trebbia.
A darne l'annuncio è stata la stessa azienda dove è rimasto a lavorare fino all'ultimo, la sua seconda famiglia: "Il Signor Armani, come è sempre stato chiamato con rispetto e ammirazione da dipendenti e collaboratori, si è spento serenamente, circondato dai suoi cari. Infaticabile, ha lavorato fino agli ultimi giorni, dedicandosi all’azienda, alle collezioni, ai diversi e sempre nuovi progetti in essere e in divenire. Negli anni, Giorgio Armani ha creato una visione che dalla moda si è estesa a ogni aspetto del vivere, anticipando i tempi con straordinaria lucidità e concretezza. Lo ha guidato un’inesauribile curiosità, l’attenzione per il presente e le persone. In questo percorso ha creato un dialogo aperto con il pubblico, diventando una figura amata e rispettata per la capacità di comunicare con tutti".
I dipendenti, oggi, piangono: "In questa azienda ci siamo sempre sentiti parte di una famiglia. Oggi, con profonda commozione, sentiamo il vuoto che lascia chi questa famiglia l’ha fondata e fatta crescere con visione, passione e dedizione. Ma è proprio nel suo spirito che insieme, noi dipendenti e i familiari che sempre hanno lavorato al fianco del signor Armani, ci impegniamo a proteggere ciò che ha costruito e a portare avanti la sua azienda nella sua memoria, con rispetto, responsabilità e amore".
La camera ardente sarà allestita a partire da sabato 6 settembre e sarà visitabile fino a domenica 7 settembre, dalle ore 9 alle ore 18, a Milano, in via Bergognone 59, all’Armani/Teatro. "Per espressa volontà del signor Armani, i funerali si svolgeranno in forma privata".

Riportiamo l'intervista a Libertà di Giorgio Armani del 12 maggio 2023, a firma dell'allora direttore Pietro Visconti in occasione del conferimento della laurea honoris causa
Alla speciale giornata del ritorno a Piacenza, Giorgio Armani si è avvicinato con la discrezione che lo distingue da decenni. I riflettori dovevano accendersi solo sulla cerimonia del Teatro Municipale a lui tanto caro per ricordi d’infanzia. Nessuna dichiarazione alla vigilia. E così è stato, con la gioiosità emozionata che abbiamo cercato di raccontare nelle pagine che precedono questa. Nel preparare la rimpatriata, tuttavia, Armani ha aperto una finestra al colloquio con "Libertà", parlando del lavoro che l’ha reso famoso, dei ricordi piacentini, di come vede cambiare uomini e donne nella società. Ecco, a festa compiuta, l’intervista.
Signor Armani, Piacenza la pensa sempre con affetto, rispetto e, sì, anche l’orgoglio di poter dire a chi lo ignora: Armani è nato qui! A lei accade di avvertire questa corrente di cordiale sentimento piacentino verso di lei?
"La avverto, certamente, e ogni volta che sono in città, ogni volta che incontro un piacentino questo affetto mi arriva in modo incondizionato e mi rende molto felice, perché le mie radici sono qui, anche se poi sono diventato quello che sono a Milano".
C’è un’immagine del periodo di vita piacentina che nella sua memoria sovrasta le altre e in qualche modo le riassume?
"Ce ne sono molte e tutte legate all’infanzia e alla prima giovinezza: i giochi sui prati lungo il fiume, le prime domeniche al cinema con mio padre. Tutti ricordi che mi hanno segnato profondamente e che, nonostante quello fosse un momento piuttosto turbolento della storia nazionale, hanno un che di rassicurante e di avvolgente. Certo, è passato tanto tempo: i ricordi e le immagini drammatiche sono scolorite, e Piacenza per me rimane un eden".
Lei ha radici piacentine ed è diventato milanese negli anni da liceale. Vita di provincia e vita in una grande città tendono a essere contrapposte. La grande città è spesso considerata "superiore". Qual è il valore permanente della provincia, della piccola città? Come si connette con il tratto rutilante della metropoli?
"La grande città è il luogo delle opportunità, dei sogni che si possono realizzare. Da sempre il vantaggio della piccola città è la maggiore compattezza dei rapporti sociali, un più forte senso di comunità, un ritmo più lento. Se ci pensa, tante storie di vero successo, in Italia, hanno origine nei piccoli centri".
La sua avventura imprenditoriale ha alla base una scintilla di passione per gli abiti come completamento della persona. Vi sono molti modi per provare a cogliere il senso del suo alto artigianato. Un abito Armani è fatto per "parlare" di chi lo indossa? Oppure per sottolineare un’identità? O invece soltanto - ma anche questo è in verità un grande obiettivo - per trasmettere benessere a chi lo porta e a chi lo osserva?
"Penso di poter dire che un abito Armani racchiude tutto questo. Nasce per esaltare la personalità di chi lo indossa, con equilibrio e discrezione. In quest’ottica il lavoro sul design è estremamente sottile, e l’accento sul confort è assoluto. Non credo ci possa essere vera eleganza e vero agio senza sentirsi bene in quel che si indossa".
In una carriera così duratura, come si tiene accesa la scintilla originaria che permette di innovare senza strappare? Cosa alimenta la creatività di Giorgio Armani?
"La mia carriera, lunga quasi cinquant’anni, è stata fatta di piccole costanti evoluzioni, mai di strappi. Quel che mi mantiene ispirato, oggi come agli inizi, è l’osservazione continua della realtà che mi circonda, della gente: penso che non ci sia altro modo di fare questo lavoro. Bisogna osservare il mondo, captarne i cambiamenti, intuire i bisogni e ancora meglio anticiparli. Non ho mai creduto negli esercizi di passerella fini a sé stessi".
C’è stato un momento del percorso in cui ha percepito che Armani era qualcosa in più del suo cognome, che era diventato una filosofia dell’abitare la società, e che da lì derivava la "grandezza" non solo dimensionale dell’impresa?
"Il passaggio per me è avvenuto presto. Quando mi sono accorto che le donne che si stavano affermando nel lavoro indossavano le mie cose, mentre gli uomini parallelamente scoprivano una formalità meno ingessata e si riconoscevano nelle mie decostruzioni. Questo significava che ero diventato parte di un cambiamento sociale. Poi c’è stato Emporio Armani e il mondo vivace e interessante delle subculture giovanili che mi hanno fatto capire che il mio lavoro poteva essere un fenomeno di costume. Un altro momento importante è stata la pandemia: lì sono passato dall’essere inventore di lifestyle a una sorta di figura tutelare della cultura e della società italiana in senso lato. Si è trattato di un’esperienza forte e coinvolgente, piena di emozioni".
Lei ha voluto ed è riuscito a mantenere proprietà e autonomia piena di un gruppo di caratura mondiale con 8mila addetti. Un unicum probabilmente assoluto. È stato complicato? Chi più di altri l’ha sostenuta in questo percorso da protagonista?
"In un mondo che si avvia sempre più a essere dominato dei grossi conglomerati, il mio percorso di testarda indipendenza è stato estremamente complesso e a volte duro, ma non avrei potuto fare in nessun altro modo. L’indipendenza mi consente di essere l’unico responsabile delle scelte e delle strategie e questo si è tradotto in piani innovativi così come nell’allargamento del mio campo di azione dalla moda alla ristorazione, agli alberghi. Per essere davvero indipendente, certo, ho sempre avuto bisogno di un forte e stretto gruppo di lavoro intorno a me: Leo, i miei nipoti, i collaboratori più fedeli sono stati fondamentali in questo percorso, e non dimentico il contributo di nessuno. In primis di Sergio Galeotti, con il quale è iniziato tutto".
Moda è la parola comune con cui si indica il suo lavoro. La trova ancora pertinente? Oppure il tempo e i cambiamenti l’hanno usurata? Quando iniziò, come si definiva in cuor suo? Stilista andava bene allora e va bene oggi?
"Stilista andava benissimo quando ho iniziato anche perché era una definizione relativamente nuova. Oggi mi considero uno stilista imprenditore: alla base di tutto c’è sempre la moda, ovvero una visione estetica che parte dall’abbigliamento, ma che poi declino in campi diversi come l’arredo e gli alberghi. Sono stati movimenti progressivi: ho vestito il corpo, poi gli ambienti, e gli ambienti sono diventati case private e complessi abitativi imponenti. La definizione di stilista è ancora pertinente: alla lettera, creo in fondo uno stile applicato ai vari settori. Aggiungo imprenditore perché il mio modo di fare business non è meno creativo".
In un’intervista a "Libertà" del 1996 lei propose un giudizio positivo su come nei vent’anni precedenti aveva visto cambiare la personalità degli uomini. Disse: hanno superato il trauma del maggior peso del mondo femminile, non sono caduti nel machismo, li vedo meno estremisti e più attenti ai valori spirituali e intellettuali. Sono passati quasi trent’anni: come aggiornerebbe quella raffigurazione? A volte si ha la sensazione che quell’evoluzione virtuosa si sia interrotta.
"È vero, a volte si ha la sensazione che gli uomini non riescano a fare pace con i nuovi ruoli femminili e con le proprie fragilità, reagendo in modo aggressivo. È un peccato e anche la dimostrazione che non sempre il progresso è una linea retta tracciata verso l’infinito: a volte si torna anche indietro".
Simmetricamente, come ha visto cambiare, se è cambiato, il pianeta femminile? Le donne degli anni Venti del terzo millennio quali atteggiamento hanno nei confronti dell’abbigliamento? C’è differenza di fondo rispetto agli anni Sessanta del secondo millennio?
"Le donne hanno guadagnato sempre maggiore sicurezza e questo è visibile anche nelle loro scelte di abbigliamento: oggi è adatto all’ufficio anche un modo di vestire più femminile che un tempo sarebbe stato considerato debole. Mi piace questa ritrovata libertà nei confronti del proprio aspetto, anche se a volte manca il senso dell’appropriatezza. Negli anni ’70 e ‘80 ce ne era sicuramente di più, ma non voglio cadere nella nostalgia".
Leggi anche l'intervista a Giorgio Armani di Gianni Manstretta pubblicata su Libertà il 22 gennaio 1979
Leggi anche l'intervista a Giorgio Armani di Gianni Manstretta pubblicata su Libertà il 22 gennaio 1979Leggi anche