«Io, che vivo ad Haifa e provo a ripararmi come tutti nei bunker»
La testimonianza di Mirco Mutti, ricercatore fiorenzuolano. «Si spera sempre sia l’ultima crisi, ma questa volta è intensa»
Federica Duani
June 20, 2025|27 giorni fa

Mirco Mutti, ricercatore post dottorato all’università Technion
Attesa, speranza. Una sirena di allarme, un minuto per raggiungere il rifugio, un boato. «Nei bunker israeliani si entra ordinati: all’interno c’è una luce, dei divani, ci si siede e si aspetta», racconta Mirco Mutti, fiorenzuolano classe 1993. Poi continua: «Tutti guardano il telefono, attendono notizie e messaggi. Incollati all’applicazione “Home Front Command”, comando del fronte interno: aggiorna in tempo reale su quello che accade fuori e quando uscire, perché non c’è altrimenti percezione. Non trema la terra: i muri sono spessi e isolanti, i boati attraversano le porte e la finestra, ce n’è una ed è in metallo». Da settembre 2023, Mirco vive ad Haifa, nel distretto settentrionale di Israele. È ricercatore post-dottorato all’università Technion. Di crisi militari, in realtà, ne ha vissute più di una: cita il 7 ottobre 2023, era lì solo da un mese quando i miliziani di Hamas, uscendo dalla Striscia di Gaza, attaccarono Israele. Il conflitto con il Libano. « È difficile separare questa crisi con l’Iran rispetto alla situazione complessiva: è un domino di eventi, in crescendo. Ogni volta speri sia l’ultima: questa volta, la crisi è intensa. Lo si percepisce dai volti della gente: preoccupati, come non lo erano da tempo. E dal numero di persone nei rifugi, triplicato». Venerdì scorso, 13 giugno, la prima sirena alle 3 del mattino. «Negli ultimi giorni sono caduti a terra almeno quattro missili, anche se mai a meno di un chilometro dal mio bunker – continua Mirco – . I veterani distinguono dal suono i missili ad impatto diretto da quelli ad intercetto, che distruggono in aria quelli in arrivo, così a terra cadono i detriti».
La paura non è tanto all’interno del bunker, quanto nelle giornate spese a ripassare mentalmente le regole governative, la ritualità di fronte ad una sirena. « Nel mio caso, chiavi di casa per uscire e rientrare. Il cellulare. E se suona l’allarme mentre fai la doccia? O quando non sei a casa?». Cerchi un bunker, nelle stazioni è visibile. Per strada fermi una macchina, ti rifugi nel primo edificio. « I miei vicini non sono sconosciuti, mi traducono le notizie televisive dall’arabo, le più immediate in materia di sicurezza».
Cessato l’allarme, si esce dal bunker: «C’è una scala, poi un piccolo bosco, dal mio appartamento affacciato su una valle interna: resta uguale, dopo ogni attacco, ed è ciò che mi dà stabilità. Haifa è un microcosmo israeliano che funziona, nella sua varietà culturale: circa 300.000 abitanti, ma l’atmosfera è un po’ un conglomerato di molteplici Fiorenzuola». Sentiamo Mirco sorridere con empatica lucidità. Da martedì è a Dahab, nel Sinai, in Egitto. Dodici ore di viaggio: treno, autobus e taxi. Una sirena anche nel viaggio in treno, lì dove tra l’ammasso di gente ci sono tanti giovani militari di leva «maschi e femmine tra i 18 e i 21 anni, con un mitragliatore automatico in mano e la serenità in volto: sono in gruppo, fanno passare prima i civili». Tutti nei rifugi situati in banchina, poi di nuovo sul treno. Da Be’er Sheva, la città più a sud di Israle, in autobus Mirca attraversa il deserto del Negev, fino al villaggio israeliano sul Mar Rosso, al confine con l’Egitto. La frontiera «sembrava un esodo: in Egitto mi fermerò a monitorare la situazione. Poi i casi sono due: tornare in Italia o ad Haifa, per ora la seconda». Speranza, attesa.


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