«In guerra ma con una vita normale», la quotidianità di Jacopo Parolini a Tel Aviv
Trentanove anni, da tre in Israele, racconta la sua esperienza tra lavoro e famiglia
Elisabetta Paraboschi
June 20, 2025|27 giorni fa

«Viviamo in un Paese in guerra, ma cerchiamo di andare avanti e di vivere una vita normale». Cos’è la normalità? Se lo chiedi a Jacopo Parolini, trentanove anni che da tre abita e lavora a Tel Aviv, è lavorare come capocantiere, fare boxe e vivere in un grattacielo che si affaccia direttamente sul mare. Ma è anche avere un bunker in casa («sono fortunato perché ne ho uno in appartamento come altre persone nel mio palazzo») e convivere con l’allarme dei bombardamenti.
«Fortunatamente il 95 per cento dei missili viene intercettato – spiega – a livello tecnologico infatti Israele è avanti anni luce: se non ci fosse un sistema missilistico qui sarebbe tutto raso al suolo. Qualche giorno fa c’è stato un bombardamento al mattino: è caduto qualche missile nel sud di Israele, ha colpito un grande ospedale e per fortuna non ci sono state vittime, ma dei feriti sì». Anche ieri sulla zona di Beer Sheva è caduto un altro missile vicino ad alcuni edifici residenziali.
Parolini invia alcune foto scattate alla città di Tel Aviv dall’alto: si vede il traffico che scorre, le macchine che vanno. «Qui la vita va comunque avanti – sottolinea – anche se chiaramente siamo in guerra e si percepisce come le armi adoperate dall’Iran abbiano oggi una maggiore pericolosità rispetto a quelle fronteggiate in passato. Ad esempio l’aeroporto è chiuso, i ristoranti e le discoteche alla sera sono chiusi e idem le scuole, chiuse con una settimana di anticipo. Ci sono una serie di restrizioni che prima non erano state applicate, adesso sì. I negozi invece sono aperti, le persone continuano ad andare in spiaggia anche se un po’ meno di prima e io ad esempio sto continuando a lavorare e ad allenarmi: dormo nella stanza in cemento armato che ho in casa, ma a dire la verità ci dormivo anche prima perché è più fresca rispetto alla mia camera. Si cerca di mantenere la quotidianità, anche se è diversa».
Se gli si chiede se abbia o meno paura, il ragazzo risponde che «il primo giorno (ossia il 13 giugno scorso, ndr) ho avuto paura»: «È tremato tutto, ho avuto proprio la percezione della guerra e ho anche pensato di andare in Giordania – ammette – però io qui ho la mia casa, una mia compagna, il mio lavoro, tutta la mia vita. Quando ci sono gli allarmi i cellulari ti avvisano con venti minuti di anticipo e poi cinque minuti prima suona la sirena. Certo quello che mi auguro è che questa situazione finisca al più presto: basta con le guerre».

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