Il mondo ludico dal gran tour alla luna. Incontro con Nestore Mangone, designer molto selettivo
Tra i suoi progetti è in arrivo "Timeless Journeys"
Carlo Chericoni
|10 giorni fa

Nestore Mangone durante una partita di prova di Dolmen- © Libertà/Carlo Chericoni
Continua il nostro viaggio alla scoperta dei migliori game designer italiani, e questa volta abbiamo avuto il piacere di sederci al tavolo con uno degli autori più interessanti e in ascesa del panorama contemporaneo: Nestore Mangone.
Classe 1982, Mangone si avvicina al mondo del game design nei primi anni 2010, ma è nel 2018 con Newton, firmato insieme a Simone Luciani, che si afferma sulla scena internazionale. Il titolo, un eurogame strategico ambientato nel mondo della ricerca scientifica, riceve ottimi consensi e segna l’inizio di una collaborazione che porterà anche al grande successo di Darwin’s Journey.
Gli ultimi due anni hanno visto molte produzioni di Nestore attirare l’attenzione degli appassionati, come l’apprezzatissimo Shackleton Base: Viaggio sulla Luna, che porta i giocatori in una corsa all’esplorazione spaziale, Stupor Mundi in cui si costruiscono castelli durante il regno di Federico II di Svevia e Baghdad: The City of Peace, dove si vestono i panni di un visir nella celebre città circolare.
Tra i progetti in arrivo, spicca Timeless Journeys: The Italian Grand Tour, dedicato al celebre viaggio formativo nell’Italia del XVIII secolo intrapreso dai giovani aristocratici europei. L’abbiamo incontrato per parlare della sua carriera, del suo approccio al design e della sua visione del gioco come forma culturale in continua evoluzione.
Classe 1982, Mangone si avvicina al mondo del game design nei primi anni 2010, ma è nel 2018 con Newton, firmato insieme a Simone Luciani, che si afferma sulla scena internazionale. Il titolo, un eurogame strategico ambientato nel mondo della ricerca scientifica, riceve ottimi consensi e segna l’inizio di una collaborazione che porterà anche al grande successo di Darwin’s Journey.
Gli ultimi due anni hanno visto molte produzioni di Nestore attirare l’attenzione degli appassionati, come l’apprezzatissimo Shackleton Base: Viaggio sulla Luna, che porta i giocatori in una corsa all’esplorazione spaziale, Stupor Mundi in cui si costruiscono castelli durante il regno di Federico II di Svevia e Baghdad: The City of Peace, dove si vestono i panni di un visir nella celebre città circolare.
Tra i progetti in arrivo, spicca Timeless Journeys: The Italian Grand Tour, dedicato al celebre viaggio formativo nell’Italia del XVIII secolo intrapreso dai giovani aristocratici europei. L’abbiamo incontrato per parlare della sua carriera, del suo approccio al design e della sua visione del gioco come forma culturale in continua evoluzione.
Com’è iniziata la sua carriera di game designer?
«Ho iniziato con prototipi che erano più esperimenti che giochi veri. Il primo si chiamava Cosmologic, un tentativo astratto su karma e reincarnazione. Era impacciato, ma mi fece capire quanto sia difficile trasformare un’idea in un sistema giocabile. Per anni ho provato e fallito: per ogni gioco pubblicato, almeno nove finivano nel cestino».
«Ho iniziato con prototipi che erano più esperimenti che giochi veri. Il primo si chiamava Cosmologic, un tentativo astratto su karma e reincarnazione. Era impacciato, ma mi fece capire quanto sia difficile trasformare un’idea in un sistema giocabile. Per anni ho provato e fallito: per ogni gioco pubblicato, almeno nove finivano nel cestino».
In quale momento ha capito che creare i giochi sarebbe stata la sua professione?
«La vera svolta è arrivata con Newton: lì ho capito che poteva che potevo vivere di game design e non solo dedicarci le ore libere. All’inizio è stato davvero difficile e anche ora rimane una scommessa aperta».
«La vera svolta è arrivata con Newton: lì ho capito che poteva che potevo vivere di game design e non solo dedicarci le ore libere. All’inizio è stato davvero difficile e anche ora rimane una scommessa aperta».
Lei ha lavorato su giochi con temi storici, scientifici e di esplorazione spaziale. Quanto è strumentale il tema nei suoi progetti, e quando invece diventa vincolante?
«Non esiste un punto di partenza fisso: a volte arriva prima il tema, altre la meccanica, altre ancora una dinamica o una suggestione narrativa. Qualunque sia l’ingresso, conta solo se funziona al tavolo. Il tema è un linguaggio che dà direzione, ma può diventare anche un vincolo se pretende coerenza totale, e nel mio caso non arrivo mai a questa pretesa. L’importante è che alla fine tema e meccanica si allineino».
«Non esiste un punto di partenza fisso: a volte arriva prima il tema, altre la meccanica, altre ancora una dinamica o una suggestione narrativa. Qualunque sia l’ingresso, conta solo se funziona al tavolo. Il tema è un linguaggio che dà direzione, ma può diventare anche un vincolo se pretende coerenza totale, e nel mio caso non arrivo mai a questa pretesa. L’importante è che alla fine tema e meccanica si allineino».
Gli appassionati di board game abbinano il suo nome a titoli complessi, con una forte componente di gestione risorse. Non le pesa il modo in cui il mondo dei giochi da tavolo tende a incasellare sempre tutti e tutto in categorie specifiche?
«Io non penso per etichette, penso a giochi che mi piacerebbe giocare e provo a progettare. Che poi ci siano alcuni giocatori che si aspettano da me solo “gestionali complessi” e rimangono delusi da giochi più leggeri, non posso farci molto. In ogni caso per ribaltare questa narrazione mi basterebbe fare un gioco semplice che vende mezzo milione di copie, avete qualche idea da suggerirmi?».
«Io non penso per etichette, penso a giochi che mi piacerebbe giocare e provo a progettare. Che poi ci siano alcuni giocatori che si aspettano da me solo “gestionali complessi” e rimangono delusi da giochi più leggeri, non posso farci molto. In ogni caso per ribaltare questa narrazione mi basterebbe fare un gioco semplice che vende mezzo milione di copie, avete qualche idea da suggerirmi?».
Secondo lei, un gioco può insegnare qualcosa attraverso le sue regole o il suo scopo è solo intrattenere?
«Un gioco può insegnare molto, anche senza volerlo. Giocare è un esercizio di pensiero e relazione: insegna a perdere, a pianificare, a rispettare regole e a interpretarle. L’intrattenimento è solo la porta d’ingresso. Inoltre nei miei giochi c’è sempre un’ambizione sottesa: ispirare la meraviglia. Solo umani che riescono ancora a provare la meraviglia possono ambire a creare cose meravigliose».
«Un gioco può insegnare molto, anche senza volerlo. Giocare è un esercizio di pensiero e relazione: insegna a perdere, a pianificare, a rispettare regole e a interpretarle. L’intrattenimento è solo la porta d’ingresso. Inoltre nei miei giochi c’è sempre un’ambizione sottesa: ispirare la meraviglia. Solo umani che riescono ancora a provare la meraviglia possono ambire a creare cose meravigliose».
Quale “ingrediente” reputa non debba mai mancare in un suo titolo?
«L’ingrediente è sicuramente la semplicità d’esecuzione in un sistema complesso. Non voglio che i giocatori perdano troppo tempo a capire come effettuare un’azione, voglio che le azioni siano semplici da svolgere ma che le scelte siano tante e stratificate in modo che tutti gli elementi del gioco siano coerenti e collegati senza complicazioni inutili. Non è sempre facile!».
«L’ingrediente è sicuramente la semplicità d’esecuzione in un sistema complesso. Non voglio che i giocatori perdano troppo tempo a capire come effettuare un’azione, voglio che le azioni siano semplici da svolgere ma che le scelte siano tante e stratificate in modo che tutti gli elementi del gioco siano coerenti e collegati senza complicazioni inutili. Non è sempre facile!».
Come cambia il processo creativo quando si lavora da soli o con altri autori?
«Da solo sono più rapido, ma anche più prigioniero delle mie fissazioni. In collaborazione, come con Simone Luciani o Fabio Lopiano, serve disciplina e chiarezza, ma anche flessibilità e umiltà: le buone idee possono arrivare da chiunque. Il confronto a volte è duro, ma spesso produce un equilibrio migliore».
«Da solo sono più rapido, ma anche più prigioniero delle mie fissazioni. In collaborazione, come con Simone Luciani o Fabio Lopiano, serve disciplina e chiarezza, ma anche flessibilità e umiltà: le buone idee possono arrivare da chiunque. Il confronto a volte è duro, ma spesso produce un equilibrio migliore».
Cosa significa oggi innovare davvero nel board game design?
«Non significa inventare meccaniche mai viste, ma usarle in modo originale, sorprendere senza perdere chiarezza. Innovare è creare tensione e decisioni nuove, non solo moltiplicare regole su regole come vedo spesso. Inoltre innovare significa anche prendere sentieri che gli altri hanno abbandonato o non hanno sviluppato adeguatamente e provare a marciare con un nuovo spirito».
«Non significa inventare meccaniche mai viste, ma usarle in modo originale, sorprendere senza perdere chiarezza. Innovare è creare tensione e decisioni nuove, non solo moltiplicare regole su regole come vedo spesso. Inoltre innovare significa anche prendere sentieri che gli altri hanno abbandonato o non hanno sviluppato adeguatamente e provare a marciare con un nuovo spirito».
C’è uno specifico genere di gioco in cui le piacerebbe cimentare la sua creatività?
«Vorrei creare alcuni giochi semplici, quasi “pop”, che parlino a un pubblico più ampio. Ci sto lavorando, chissà! Principalmente vorrei comprare casa e ho bisogno di un gioco che venda mezzo milione di copie».
«Vorrei creare alcuni giochi semplici, quasi “pop”, che parlino a un pubblico più ampio. Ci sto lavorando, chissà! Principalmente vorrei comprare casa e ho bisogno di un gioco che venda mezzo milione di copie».
In questi giorni, sul sito di finanziamento online Kickstarter è presente una campagna per Timeless Journeys: The Italian Grand Tour, un suo nuovo progetto creato con Andrea Robbiani. Può raccontarci qualcosa di questo titolo così particolare?
«È un viaggio nel tempo e nello spazio, sulle tracce del Grand Tour che per secoli ha formato generazioni di viaggiatori. Non è solo un gestionale, ma un’esperienza che mescola arte, cultura e scoperta. Con Andrea Robbiani abbiamo cercato di costruire un ponte tra memoria storica e piacere del tavolo, qualcosa che non sia solo “collezionare punti” ma raccontare il senso stesso del viaggio. È un gioco a cui tengo molto perché ha una lunga gestazione e alla fine siamo molto soddisfatti del risultato. Il tema del viaggio nei miei titoli torna spesso e qui è sviscerato per bene. Inoltre sono sempre stato affascinato da quel periodo storico che va dall’età della ragione fino al romanticismo. Avrei voluto leggere e studiare di più su questi personaggi incredibili, ho finito per farci un gioco con la speranza che questo mio amore sia contagioso!».
«È un viaggio nel tempo e nello spazio, sulle tracce del Grand Tour che per secoli ha formato generazioni di viaggiatori. Non è solo un gestionale, ma un’esperienza che mescola arte, cultura e scoperta. Con Andrea Robbiani abbiamo cercato di costruire un ponte tra memoria storica e piacere del tavolo, qualcosa che non sia solo “collezionare punti” ma raccontare il senso stesso del viaggio. È un gioco a cui tengo molto perché ha una lunga gestazione e alla fine siamo molto soddisfatti del risultato. Il tema del viaggio nei miei titoli torna spesso e qui è sviscerato per bene. Inoltre sono sempre stato affascinato da quel periodo storico che va dall’età della ragione fino al romanticismo. Avrei voluto leggere e studiare di più su questi personaggi incredibili, ho finito per farci un gioco con la speranza che questo mio amore sia contagioso!».
C’è qualcosa che i giochi da tavolo si ostinano a non voler raccontare, ma che lei vorrebbe affrontare, prima o poi?
«Le zone d’ombra: la noia, il fallimento, la frustrazione. Spesso i giochi vogliono essere solo brillanti e vincenti. Io credo che anche ciò che non è piacevole abbia dignità di racconto, e un giorno vorrei provare a portarlo sul tavolo».
«Le zone d’ombra: la noia, il fallimento, la frustrazione. Spesso i giochi vogliono essere solo brillanti e vincenti. Io credo che anche ciò che non è piacevole abbia dignità di racconto, e un giorno vorrei provare a portarlo sul tavolo».