«Gruppo Ferruzzi eliminato a tavolino. Arrivò uno tsunami che cancellò tutto»
L’intervista a Carlo Sama, imprenditore. Domani alle 18.30 a palazzo Costa, la presentazione del libro “La caduta di un impero. 1993: Montedison, Ferruzzi, Enimont”
Filippo Lezoli
|5 giorni fa

Carlo Sama
Cognato e braccio destro di Raul Gardini, Carlo Sama racconterà domani a Piacenza l’ascesa e il declino del gruppo Ferruzzi. Sama, che è stato responsabile delle relazioni esterne del gruppo Ferruzzi- Montedison, a quella vicenda ha dedicato una pubblicazione uscita lo scorso anno, edita da Rizzoli, dal titolo “La caduta di un impero. 1993: Montedison, Ferruzzi, Enimont”.
Il libro, che sarà presentato a Palazzo Costa alle 18.30 in un incontro moderato dal direttore Mediaset Paolo Liguori, prende le mosse da Serafino Ferruzzi, capace di creare dal nulla un colosso agroindustriale, per arrivare agli anni Ottanta con a capo Raul Gardini, il cui suicidio il 23 luglio 1993 scosse l’intero Paese, e all’epilogo della vicenda con Mani Pulite.
Carlo Sama, cosa l’ha spinta a distanza di trent’anni a mettere nero su bianco la storia del gruppo Ferruzzi e del suo crollo?
«Innanzitutto sono anziano e ho cinque nipoti giovanissimi, a cui non avrò il tempo di raccontare la storia della loro famiglia. Ma c’è un’altra ragione: riportare verità in quella storia dopo l’orribile docufilm prodotto su Raul Gardini, realizzato con il solo intento di screditare la famiglia Ferruzzi e nel quale, soprattutto, si dimenticarono di una persona, Serafino Ferruzzi. Senza di lui non sarebbe esistito né il sottoscritto né Raul Gardini».
Crede di essere riuscito nel suo intento?
« Pensavo fosse un libro che non avrebbe avuto alcun tipo di interesse, a parte quello strettamente familiare. Mi sbagliavo. Quella di Piacenza sarà la 45esima presentazione, con l’aggiunta di alcune trasmissioni televisive».
Evidentemente l’interesse per questa vicenda ha un’eco lunga. È una storia di trent’anni fa, ma ancora viva?
«Questa è la grande scoperta. Presentammo per la prima volta il libro alla libreria Rizzoli con Alessandro Sallusti. Fu sbalorditivo vedere tutte quelle persone».
Ma cosa attrae ancora oggi, a suo avviso, l’interesse di tanti italiani per il gruppo Ferruzzi?
« Due aspetti: il primo è capire la ragione per la quale un gruppo da 60mila miliardi di lire e all’epoca con più di 60mila dipendenti si sia potuto dissolvere nello spazio di qualche settimana. L’altra cosa è l’interesse per Mani Pulite».
Per il nostro Paese quella vicenda fu più un crocevia o una frattura?
« La seconda. Le rispondo con queste parole: «Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». La frase è di Francesco Saverio Borrelli, Procuratore della Repubblica al tribunale di Milano che condusse l’inchiesta Mani Pulite. E questa frase, secondo la mia modesta opinione, di Mani Pulite è l’epitaffio».
Ha portato il suo libro anche nel cuore della politica italiana, in Senato. Come è stato accolto?
« L’ho fatto per ben due volte. La prima volta, a marzo, nell’emiciclo della sala, in alto a sinistra era seduto Antonio Di Pietro. Le confesso che non avevo alcun tipo di timore, ma un po’ di inquietudine di essere in qualche modo contraddetto, quella sì, c’era. In realtà abbiamo a volte battibeccato durante l’incontro, ma alla fine ho ricevuto solo parole lusinghiere sul libro e Di Pietro ha confermato tutto il contenuto definendolo “un libro onesto”, che corrispondeva a quello che lui stesso aveva potuto appurare attraverso le sue indagini».
Cosa la colpì di più delle sue parole?
«Un particolare drammaticamente importante, per me, era il fatto che ha confermato che Serafino Ferruzzi, quando morì nell’incidente aereo nei pressi di Forlì, aveva lasciato nelle mani del fiduciario una cifra che ammontava più o meno a 1.250 miliardi di lire: immagini che oggi corrisponderebbero più o meno a 5,6 miliardi di euro. E immagini poi che la Fiat capitalizzava 400 miliardi e le Generali 600 miliardi di vecchie lire. Questo significa che Serafino Ferruzzi avrebbe potuto comprare sia Generali sia Fiat e sarebbero rimasti ancora un po’ di spiccioli per altri acquisti. Sia però chiara una cosa».
Prego.
«Nella mia testa questo non assolve la veemenza con cui Di Pietro ha condotto le indagini causando morte e tragedie familiari. Però nella sua persona non dico di avere ravvisato un rimorso, ma una rivisitazione di quanto è accaduto, quella sì».
Ci fa rivivere con poche parole il clima di Tangentopoli?
«Era drammatico, il tintinnio delle manette è una sorta di tortura: ci sono persone che non si sono comportate come uomini, ma come vili, hanno tradito il lavoro, la famiglia, il gruppo, il collega, pur di avere salva la pelle o risparmiarsi l’onta del carcere. È stato uno tsunami devastante che ha cancellato tutto».
Lei sostiene nel suo libro che la caduta del gruppo Ferruzzi fu qualcosa di pianificato. Può spiegare cosa intende?
«Che nelle rivoluzioni c’è sempre qualcuno che se ne approfitta per regolare i conti».
Chi doveva regolare i conti con voi?
« Enrico Cuccia di Mediobanca. Aveva scientificamente pianificato l’esproprio del gruppo Ferruzzi: Cuccia ha fatto la fortuna di quelli del salotto buono, i capitalisti con i capitali all’estero e non in Italia, e certo c’è un sacco di gente che ne potrà parlare bene. Non io, che ne posso parlare solo male».
Pianificazione a tavolino: parole forti, ma che lei ripete spesso.
« Lo faccio perché il gruppo Ferruzzi era l’unico gruppo industriale che aveva risultati positivi fino al 1993, in anni di grande crisi. Nel 1992 aveva 2.300 miliardi di vecchie lire di margine operativo lordo e solo nel primo semestre del ‘93 era aumentato del 48%. Era un gruppo sano. Quando un chirurgo ha un paziente che è in fin di vita perché un organo è devastato, cosa fa? Aspetta un organo sano da trapiantare. E l’organo sano era il gruppo Ferruzzi. La Fiat, che per Cuccia e Maranghi era da salvare, aveva 34mila miliardi di debito e 17mila miliardi di disavanzo finanziario nel 1993. Le viene data l’Edison ».
Le chiedo: se il gruppo Ferruzzi avesse scavalcato l’anno 1993, cosa sarebbe oggi l’industria italiana?
« Le conseguenze di quanto accadde allora le si leggono anche oggi. Il 17 marzo del 2025, quando ero al Senato, si è presentato il senatore Luca De Carlo, presidente della Commissione Agricoltura, turismo, industria e produzione agroalimentare, che ha voluto rendere onore a Serafino Ferruzzi, dicendo che quello che lui aveva realizzato e insegnato era ancora oggi la colonna portante del settore».
Può fare un esempio concreto?
Quando per pochi mesi assunsi la responsabilità del gruppo, vendetti la chimica alla Shell, conservai però un diritto di acquisto per tutti i pozzi di metano e di gas che la Shell aveva nell’Adriatico, che si sarebbero aggiunti all’elettricità della Edison. Pensi allora quanto sarebbe stato importante per il nostro Paese che la Ferruzzi esistesse ancora. Oggigiorno sarebbe uno dei gruppi agroalimentari più grandi al mondo».
Ma i “se” non lasciano traccia. Ci fu invece la scalata alla Montedison. L’inizio della fine?
«Un errore drammatico. Non ce n’era bisogno, neppure in una visione ecologica o pensando alle materie plastiche biodegradabili, come faceva Gardini. La Ferruzzi disponeva già di tutte le risorse necessarie. La Montedison è sempre stata qualcosa che ha creato problematiche ai suoi azionisti».
Che ricordo ha di Raul Gardini?
«Io non sono la persona più adatta a rispondere, anche perché quello che ho fatto nella mia vita lo devo a lui. In un certo senso, con un po’ di nostalgia, lo ricordo un uomo affascinante, di 15 anni più vecchio di me, una persona interessante, che ha svolto bene la prima fase alla guida del gruppo, seguendo il solco indicato da suo suocero, ma il volersi cimentare con il fantasma di Serafino Ferruzzi l’ha portato poi all’acquisizione della Montedison. Voleva mettere il suo sigillo sul gruppo. Quello fu l’errore mortale per il futuro del gruppo, soprattutto per l’indebitamento che ci siamo dovuti accollare».