La strage di rio Boffalora "si riaffaccia" sulla Statale 45
Un pannello ricorda le 12 mondine e i tagliariso morti nel 1956 tra Bobbio e Marsaglia. Le lacrime dei sopravvissuti: "Quelle ferite non sono mai guarite"

Elisa Malacalza
|16 giorni fa

L'inaugurazione del pannello nel luogo dell'incidente dell'ottobre 1956 - © Libertà/Pietro Zangrandi
Precipitarono nel rio Boffalora mentre andavano al lavoro, per poche lire e un sacchetto di riso. Però la loro morte - 12 vite, spezzate il 6 ottobre 1956 come il canto dei mondariso che accompagnava il lungo viaggio su un camion rosso come il sangue versato - non fu vana: la strage di rio Boffalora infatti colpì tanto profondamente le coscienze in tutta Italia da far dire "mai più" alle condizioni di viaggio così insicure, stipati su camion ai quali aggrapparsi per non cadere, coperti solo da un telo.
Arrivarono le prime corriere, dopo l’indignazione del Paese che promise la medaglia d’oro ai superstiti (inutile dire che gliene arrivò poi una di bronzo), per portare in sicurezza le decine di giovani dalle povere montagne alle risaie di Vercelli, dove una targa ricorda oggi nella sede dello Spi Cgil quelle croci piantate per sempre nel cuore di Ferriere, della Valdaveto, di Marsaglia, di Bobbio, così come nelle vie dedicate a Piacenza, o al monumento a La Verza nato da una raccolta fondi, o alla lapide al santuario del Pilastro, a Gragnanino.
La lapide che ricorda il punto in cui precipitò il "camion della morte", sulla Statale 45 tra Bobbio e Marsaglia, mostra tutti i volti, sorridenti, di quei ragazzi e di quelle ragazze. E accanto, ora che la strada è stata messa in sicurezza in quella che si chiama per tutti "la curva delle mondine", si trova un pannello per insegnare a chi si fermi un istante cosa voglia dire morire sul lavoro e in quali condizioni si piegarono bambini (che mentivano spesso sull’età, pur di aiutare le famiglie), ragazzi e giovani donne. Un insegnamento ancora così tragicamente attuale, con 47 vittime sul lavoro solo dall’inizio dell’anno in Emilia-Romagna e purtroppo una media di otto all’anno nel Piacentino, che saranno ricordate domenica in città, alla giornata Anmil dedicata alle croci bianche.

«Per non dimenticare tutte le mondine e i mondariso che si sono recati a lavorare nelle risaie per un sacco di riso e poche lire», si legge nella nuova stele voluta da Unione montana e città di Bobbio, e che riporta tutti i nomi delle vittime, la storia, il canto composto dal pifferaio Davide Bazzini, con Davide Bardugoni, Raffaele Pollini, Massimo Bardugoni. Dieci le foto di mondine, che provano a sorridere nonostante l’acqua alle ginocchia, tra le bisce e le zanzare, sotto al sole d’estate. All’inaugurazione, sabato, erano presenti il sindaco di Bobbio e presidente dell’Unione montana Roberto Pasquali, con i rappresentanti di Ottone, Marsaglia, Cerignale, Travo, Provincia, i Carabinieri, i Vigili del fuoco, gli imprenditori Marco Labirio (anche lui mondariso) e Piero Mozzi, ma soprattutto i sopravvissuti alla strage: Paolo Briggi, cui venne data l’estrema unzione perché tutti lo credevano morto, e Gaspare Cervini, che nonostante fosse gravemente ferito tentò di salvare tutti, anche la moglie tanto amata, Maddalena Calamari, che sarebbe rimasta invalida, per sempre.
Sono passati 69 anni ma il trauma sta lì, davanti agli occhi di Pierina, sorella di Lino Calamari, morto a soli 16 anni, e a Luciano, fratello dell’alpino Giuseppe Balletti, di 22, che era appena tornato da Bassano del Grappa, in congedo militare. «Lavoravo a Genova, ma tornai a casa per la Madonna del Rosario», ricorda lei. «La casa era vuota. Venni a sapere che erano tutti a Bobbio, perché erano morti mio fratello e mia zia sul camion. Mia sorella e un altro fratello erano gravissimi». «Le cicatrici non sono mai guarite», aggiunge Briggi. L’unico disinfettante possibile fu la benzina. Un dolore atroce. Per le ferite dell’anima non ci fu nulla se non il ricordo, ogni anno dal 1956, e i "mai più" che pochi hanno ascoltato.
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