Diamo il nome a quella creatura
La riflessione del direttore Gian Luca Rocco sul caso del feto senza vita trovato all'ospedale di Piacenza

Gian Luca Rocco
June 20, 2025|5 giorni fa

La storia del feto trovato in un sacchetto del Pronto soccorso dell’Ospedale di Piacenza mi ha scosso profondamente.
Non solo, ovviamente, me, ma tutta la comunità che si è accostata all’orrore attraverso i racconti di Libertà o le interviste di Telelibertà. Mi frullano in testa solo domande e nessuna risposta. Chi è la madre? Dove ha partorito? Perché in un sacchetto? Perché in Pronto soccorso? Come sta quella donna? Avrà avuto un aborto spontaneo? Sapeva di essere incinta? Chi ha portato il sacchetto? Dove lo ha tenuto? Come ha fatto a entrare ed uscire senza che nessuno se ne accorgesse? E poi la più drammatica: quella creatura è nata morta oppure è morta dopo la nascita? L’ultimo interrogativo, oltre avermi messo addosso una tristezza e un magone come se un sasso di un chilo si fosse fermato in mezzo alla gola, mi ha suggerito un’altra questione: un corpicino di quelle dimensioni, di quel peso, può essere chiamato semplicemente “feto”? Oppure è un bambino (un maschietto per la precisione)? Vorrei dare una risposta almeno a questo quesito, ma la giurisprudenza non ci aiuta: dipende se è nato vivo o è nato morto. Eppure, nascono bambini prematuri infinitamente più piccoli di lui che aveva tra le 25 e le 30 settimane. Che era in tutto e per tutto un essere umano completo in via di sviluppo finale, il doppio della vita almeno di quando è ancora ammesso l’aborto. Che, se partorito vivo in ambiente ospedaliero e messo in un’incubatrice, dopo poche settimane sarebbe già pronto per andare a casa. Mi si blocca il macigno in gola se penso che sia praticamente certo che dopo la 23esima settimana si abbia un’attività onirica importante e sicuramente il mondo intrauterino è un universo di sensazioni ed esperienze che, in certi casi soprattutto traumatici, possono segnare ancora prima di nascere la psiche del bambino. Cosa avrà sentito, che vita infinitamente breve e dolorosa avrà mai avuto quel batuffolo di carne, sangue e liquido amniotico gettato via come gli avanzi del cibo della sera prima? Gli antichi egizi pensavano che l’identità di una persona fosse l’unione tra il Ren (il nome) e il Ba (la propria anima). Se il nome fosse stato cancellato, sarebbe cessata l’esistenza anche nell’aldilà. Credo che, come gesto simbolico, tutti insieme dovremmo trovare un nome per quel bambino che, almeno da morto, possa avere la dignità di un’esistenza che non è riuscito a vivere. E magari un posto in un mondo migliore.
Non solo, ovviamente, me, ma tutta la comunità che si è accostata all’orrore attraverso i racconti di Libertà o le interviste di Telelibertà. Mi frullano in testa solo domande e nessuna risposta. Chi è la madre? Dove ha partorito? Perché in un sacchetto? Perché in Pronto soccorso? Come sta quella donna? Avrà avuto un aborto spontaneo? Sapeva di essere incinta? Chi ha portato il sacchetto? Dove lo ha tenuto? Come ha fatto a entrare ed uscire senza che nessuno se ne accorgesse? E poi la più drammatica: quella creatura è nata morta oppure è morta dopo la nascita? L’ultimo interrogativo, oltre avermi messo addosso una tristezza e un magone come se un sasso di un chilo si fosse fermato in mezzo alla gola, mi ha suggerito un’altra questione: un corpicino di quelle dimensioni, di quel peso, può essere chiamato semplicemente “feto”? Oppure è un bambino (un maschietto per la precisione)? Vorrei dare una risposta almeno a questo quesito, ma la giurisprudenza non ci aiuta: dipende se è nato vivo o è nato morto. Eppure, nascono bambini prematuri infinitamente più piccoli di lui che aveva tra le 25 e le 30 settimane. Che era in tutto e per tutto un essere umano completo in via di sviluppo finale, il doppio della vita almeno di quando è ancora ammesso l’aborto. Che, se partorito vivo in ambiente ospedaliero e messo in un’incubatrice, dopo poche settimane sarebbe già pronto per andare a casa. Mi si blocca il macigno in gola se penso che sia praticamente certo che dopo la 23esima settimana si abbia un’attività onirica importante e sicuramente il mondo intrauterino è un universo di sensazioni ed esperienze che, in certi casi soprattutto traumatici, possono segnare ancora prima di nascere la psiche del bambino. Cosa avrà sentito, che vita infinitamente breve e dolorosa avrà mai avuto quel batuffolo di carne, sangue e liquido amniotico gettato via come gli avanzi del cibo della sera prima? Gli antichi egizi pensavano che l’identità di una persona fosse l’unione tra il Ren (il nome) e il Ba (la propria anima). Se il nome fosse stato cancellato, sarebbe cessata l’esistenza anche nell’aldilà. Credo che, come gesto simbolico, tutti insieme dovremmo trovare un nome per quel bambino che, almeno da morto, possa avere la dignità di un’esistenza che non è riuscito a vivere. E magari un posto in un mondo migliore.
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