L’Asia di “Sorgo Rosso” tra radici da evocare e politica da contrastare

Zhang Yimou nella sua opera prima fonde lirismo e brutalità, ma pure tradizione estetica orientale e suggestioni occidentali

Alice Morelli
|14 giorni fa
L’insurrezione dei giapponesi contro il villaggio
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Nel capolavoro “Sorgo Rosso” (1987) di Zhang Yimou, la terra non è solo sfondo, è protagonista muta e testimone di una Cina in piena trasformazione. I campi color rubino, inizialmente vividi, si tingono presto di sangue e fuoco, mentre la guerra deflagra e travolge. Il verde della natura si confonde con quello dei corpi martoriati; il sole dorato diventa bagliore di esplosioni. Una tavolozza in continua metamorfosi che racconta molto più di una semplice estetica: è la metafora visiva di un Paese che evolve, si contorce, resiste.
La stessa Cina che, come racconta Eva Dou nel suo “The House of Huawei”, passa dai soli due telefoni pubblici nel 1979 a Shenzhen a un presente dominato dallo smartphone e da connessioni istantanee. Ma “Sorgo Rosso” ci riporta a prima, al tempo delle radici, alla povertà dei villaggi, al senso di comunità, all’orgoglio contadino, alla forza di una resilienza umile.
Yimou dirige con una mano che fonde lirismo e brutalità, mescolando tradizione estetica orientale e suggestioni occidentali. I suoi primi piani profondi, la coralità epica, le dinamiche del western danno corpo a un film che rompe con l’ortodossia del cinema maoista. Il desiderio individuale – erotico, viscerale, autentico – diventa atto rivoluzionario, gesto di libertà. Eppure l’Asia, quella più arcaica, resta sempre lì . Non fa da semplice cornice, È un mondo che si espone in tutta la sua complessità; un puzzle magnifico fatto di bellezza naturale e brutalità senza filtri.
Quella di “Sorgo Rosso” non è quindi solo una storia d’amore sbocciata tra le piante di sorgo (cereale coltivato tra le botti di una distilleria) e bersagliata dagli eventi della vita, bensì un manifesto politico. Lo è nella figura femminile che si emancipa, nella natura che osserva – complice silenziosa o spettatrice impotente – la violenza dell’uomo, nella comunità che si ribella. Memorabile il canto degli operai: “Chi beve questo liquore non si inchinerà più di fronte all’Imperatore.” Un inno alla disobbedienza e alla dignità conquistata.
Il vero simbolo della narrazione, però, resta quel bambino – rimasto orfano alla fine del conflitto – che sceglie di cantare. Un grido di speranza e rabbia che sfida il silenzio lasciato dalla guerra. È il punto d’arrivo e al tempo stesso un nuovo inizio. Per lui, e per un’intera nazione.
Non è un caso se “Sorgo Rosso” viene considerato una pietra miliare del cinema asiatico. Perché riesce a fondere la verità della storia con la potenza del mito. E ci ricorda che, a volte, la rivoluzione nasce tra i solchi di un campo da coltivare.