Un differente sguardo alla biodiversità grazie ai videogiochi
Da Alba: A Wildlife Adventure alla serie Endless Ocean e Beasts of Maravilla
Francesco Toniolo
May 20, 2025|36 giorni fa

Tra pochi giorni, il 22 maggio, si celebra la Giornata internazionale della diversità biologica. È una delle tante occasioni in cui si dovrebbe riflettere sulla ricchezza della vita sul pianeta Terra, insieme al nostro rapporto con essa. La base di questo discorso è ovviamente ecologica: occorre operare attivamente per preservare la biodiversità. Ma è anche possibile interrogarsi in altri modi, per esempio su quel che vanno a raccontarci storie e media sul nostro rapporto con l’ambiente. È quel che fa per esempio da diversi anni l’ecocritica, una forma interdisciplinare di critica letteraria che ragiona sulle rappresentazioni del binomio natura-cultura nei romanzi (andando poi a toccare il cinema, i fumetti e molto altro). I videogiochi sono ovviamente a loro volta inseriti in questo orizzonte e molti di loro sono esplicitamente pensati per parlare del rapporto tra gli esseri umani e l’ambiente, talvolta con un focus specifico sulla biodiversità.
Tra gli esempi possiamo sicuramente citare Alba: A Wildlife Adventure, pubblicato nel 2020, in cui si accompagna una bambina in vacanza su una fittizia isola del Mediterraneo, dove vivono i nonni della protagonista. L’isola ospita una riserva naturale che è minacciata da un progetto edilizio. Il compito della giovane Alba (e del videogiocatore) è quello di aiutare la fauna locale, anche attraverso una documentazione fotografica capace di mostrare agli altri la biodiversità presente sull’isola. Nel corso della partita si esplora liberamente l’ambiente, si incontra la popolazione locale, si raccolgono firme contro la costruzione dell’hotel e si scattano fotografie agli animali incontrati: un’attività che è al tempo stesso un gesto politico e un atto di cura.
Tra gli esempi possiamo sicuramente citare Alba: A Wildlife Adventure, pubblicato nel 2020, in cui si accompagna una bambina in vacanza su una fittizia isola del Mediterraneo, dove vivono i nonni della protagonista. L’isola ospita una riserva naturale che è minacciata da un progetto edilizio. Il compito della giovane Alba (e del videogiocatore) è quello di aiutare la fauna locale, anche attraverso una documentazione fotografica capace di mostrare agli altri la biodiversità presente sull’isola. Nel corso della partita si esplora liberamente l’ambiente, si incontra la popolazione locale, si raccolgono firme contro la costruzione dell’hotel e si scattano fotografie agli animali incontrati: un’attività che è al tempo stesso un gesto politico e un atto di cura.

In altri casi, i videogiochi si sono soffermati soprattutto sulla spettacolarità degli animali da osservare e fotografare nel loro ambiente naturale. Possiamo ricordare per esempio la serie Endless Ocean, in cui ci si immerge nei fondali marini alla ricerca di creature da osservare e documentare. Sembra un documentario subacqueo, più che un videogioco tradizionale, visto che non viene presentata una vera e propria sfida. L’idea è quella di godersi l’esperienza subacquea senza fretta e senza pressioni, osservando pesci, delfini, meduse e i numerosi altri animali presenti.
Più o meno sulla stessa linea si colloca anche Beasts of Maravilla Island, un videogioco del 2021 in cui si impersona una giovane fotografa naturalista alle prese con una fauna immaginaria, di cui si è immaginato un intero ecosistema con una propria coerenza di fondo. Gli animali presenti nel gioco traggono comunque ispirazione da quelli reali, per aspetto e comportamento. Anche in questo caso il gioco invita a imparare a guardare, rallentando il proprio ritmo per potersi rendere conto degli animali che ci circondano.
Questi e altri videogiochi, pur diversi per tono, stile e pubblico di riferimento, mettono al centro gli esseri viventi nella loro varietà, invitano a esplorare e a stupirsi. Non saranno forse sufficienti a generare un cambiamento, ma offrono comunque un monito: per affrontare le grandi questioni ecologiche della contemporaneità serve un mutamento di paradigma. Che spesso parte proprio da un modo differente di guardare il mondo, da un cambio di prospettiva, da un punto di vista differente. E simili giochi offrono allora – perlomeno – un utile esercizio in questa direzione.
ECCO COSA HO IMPARATO DA UN VIDEOGAME DI GUERRA SUI RIFIUTO A BORDO STRADA
È sufficiente uscire a fare due passi per rendersene conto: c’è spazzatura ovunque. Tante, troppe persone non fanno alcuno sforzo per cercare un cestino. Se voleste mettervi a raccogliere tutta l’immondizia sul ciglio di una strada di campagna, potreste riempire un sacco intero dopo pochi passi. Quando emergono le discussioni sull’argomento, sento spesso parlare di maleducazione, cafoneria, crisi dei valori e ignoranza. Si comincia allora a dire che serve più educazione civica, che la scuola dovrebbe fare di più, che i genitori dovrebbero tornare a trasmettere i sani valori di un tempo…
Sono in larga parte d’accordo, ma il mio primo pensiero corre sempre da tutt’altra parte, a un videogioco che non ha nulla a che fare con i rifiuti, l’ambiente e l’educazione. Parlo di Age of Empires II, un videogioco di strategia ambientato tra medioevo e rinascimento, in cui bisogna far crescere la propria civiltà e condurla alla vittoria contro i nemici. Come detto, in apparenza nulla di più lontano dalla raccolta differenziata. Eppure il modo con cui quel gioco è stato costruito può aiutarci a capire meglio anche il fenomeno degli incivili che buttano in giro sacchetti e bottiglie di plastica. È tutto legato al senso di appartenenza, di attaccamento a qualcosa.
Andiamo con ordine. Quando si inizia una partita a Age of Empires II si hanno a disposizione solo un edificio (chiamato “centro città”), un esploratore a cavallo e un paio di abitanti del villaggio. Ciò che sta intorno a questo insediamento iniziale è sconosciuto, avvolto nella nebbia. All’inizio del gioco non si combatte, ci si limita a costruire edifici, raccogliere risorse e far crescere la popolazione, mentre il nostro scout a cavallo esplora i dintorni. Non è una scelta ovvia: in altri videogiochi di strategia le prime battaglie col nemico iniziano dopo uno o due minuti dall’avvio della partita. Age of Empires II è volutamente più lento. Furono i creatori stessi del gioco a parlare di questa scelta: volevano che le persone avessero il tempo di affezionarsi al loro insediamento, prima di dover combattere. In questo modo, avrebbero avuto un maggior attaccamento emotivo, che avrebbe reso lo scontro più intrigante. Ho preso l’esempio di Age of Empires II ma se ne sarebbero potuti fare molti altri, tra i videogiochi.
Sono in larga parte d’accordo, ma il mio primo pensiero corre sempre da tutt’altra parte, a un videogioco che non ha nulla a che fare con i rifiuti, l’ambiente e l’educazione. Parlo di Age of Empires II, un videogioco di strategia ambientato tra medioevo e rinascimento, in cui bisogna far crescere la propria civiltà e condurla alla vittoria contro i nemici. Come detto, in apparenza nulla di più lontano dalla raccolta differenziata. Eppure il modo con cui quel gioco è stato costruito può aiutarci a capire meglio anche il fenomeno degli incivili che buttano in giro sacchetti e bottiglie di plastica. È tutto legato al senso di appartenenza, di attaccamento a qualcosa.
Andiamo con ordine. Quando si inizia una partita a Age of Empires II si hanno a disposizione solo un edificio (chiamato “centro città”), un esploratore a cavallo e un paio di abitanti del villaggio. Ciò che sta intorno a questo insediamento iniziale è sconosciuto, avvolto nella nebbia. All’inizio del gioco non si combatte, ci si limita a costruire edifici, raccogliere risorse e far crescere la popolazione, mentre il nostro scout a cavallo esplora i dintorni. Non è una scelta ovvia: in altri videogiochi di strategia le prime battaglie col nemico iniziano dopo uno o due minuti dall’avvio della partita. Age of Empires II è volutamente più lento. Furono i creatori stessi del gioco a parlare di questa scelta: volevano che le persone avessero il tempo di affezionarsi al loro insediamento, prima di dover combattere. In questo modo, avrebbero avuto un maggior attaccamento emotivo, che avrebbe reso lo scontro più intrigante. Ho preso l’esempio di Age of Empires II ma se ne sarebbero potuti fare molti altri, tra i videogiochi.

Torniamo ai rifiuti. Se una decina di minuti trascorsi in un videogioco sono sufficienti per creare un minimo senso di appartenenza, sarebbe utile ricordare che tutto ciò ha valore anche nella realtà. Perché, sì, è vero che molte persone sono incivili e maleducate, ma non sono nemmeno spronate a mantenere pulito l’ambiente che li circonda, perché non hanno alcun attaccamento. Alla fin fine – per quanto sia brutto ammetterlo – ragioniamo spesso in termini utilitaristici. Con le dovute eccezioni, la domanda implicita alla base di tanti comportamenti è “io cosa ci guadagno?”. E non c’è nessun “guadagno” percepito nel buttare una lattina in un campo, nell’imbrattare un muro o nello sporcare i sedili del treno. Perché nessuna di queste cose è sentita come “tua”, perché non hai alcun legame con essa. Allora devono intervenire il senso del dovere (“non si fa perché è sbagliato a prescindere”) o la paura della punizione (“non lo faccio perché se mi scoprono avrò una multa salata”), ma spesso non sono deterrenti sufficienti. Scuola e istruzione possono intervenire su fronti come questi, dove comunque c’è un ampio margine di miglioramento, ma quando si è legati a qualcosa ci si preoccupa attivamente di averne cura.
Ci tengo anche ad aggiungere che, purtroppo, non vedo una facile soluzione. Le comunità (di qualunque genere) sono disgregate e sfilacciate, la fluidità degli spostamenti è vantaggiosa per tanti aspetti ma va anche a erodere questo senso di attaccamento a un luogo, il turismo mordi-e-fuggi ti fa vivere ogni posto come una sorta di set in cui sei uno spettatore di passaggio. Quel che posso dire è che, qui come in tanti altri casi, i videogiochi mi hanno offerto dei validi spunti di riflessione sulla realtà, anche (anzi, soprattutto) quando non sono giochi realizzati con un esplicito intento educativo. Ma del resto non c’è da stupirsene, per chi riconosce che i videogiochi sono opere d’arte: hanno sempre qualcosa da dire, proprio come i classici della letteratura secondo Italo Calvino.
Ci tengo anche ad aggiungere che, purtroppo, non vedo una facile soluzione. Le comunità (di qualunque genere) sono disgregate e sfilacciate, la fluidità degli spostamenti è vantaggiosa per tanti aspetti ma va anche a erodere questo senso di attaccamento a un luogo, il turismo mordi-e-fuggi ti fa vivere ogni posto come una sorta di set in cui sei uno spettatore di passaggio. Quel che posso dire è che, qui come in tanti altri casi, i videogiochi mi hanno offerto dei validi spunti di riflessione sulla realtà, anche (anzi, soprattutto) quando non sono giochi realizzati con un esplicito intento educativo. Ma del resto non c’è da stupirsene, per chi riconosce che i videogiochi sono opere d’arte: hanno sempre qualcosa da dire, proprio come i classici della letteratura secondo Italo Calvino.