Clair Obscur: Expedition 33, il successo di una narrazione
Si sta parlando parecchio di questo videogioco, non solo per la sua qualità ma perché gli autori hanno puntato su comunicazione e marketing
Francesco Toniolo
May 27, 2025|29 giorni fa

Il videogioco Clair Obscur: Expedition 33
C’è un videogioco di cui si sta parlando parecchio in questi giorni. Si chiama Clair Obscur: Expedition 33. Guardando il suo contenuto, ha tutte le carte in regola per poter attirare l’attenzione degli appassionati: estetica ricercata, ambientazione originale, un mix ben calibrato tra azione e narrazione. Tuttavia, come ben noto, la qualità da sola non basta. Esistono in ogni settore moltissimi prodotti “di qualità” che rimangono nell’ombra. Qualcuno di loro riesce a spezzare il muro del silenzio grazie al passaparola, ma questo non è controllabile. In tutti gli altri casi, bisogna puntare su comunicazione e marketing. E avere una storia vincente da raccontare è un grandissimo aiuto.
Per capire come mai Clair Obscur si è proposto molto bene, bisogna prima osservare il panorama attuale. Siamo in un momento complicato, per i cosiddetti videogiochi “tripla A”: vengono chiamate così quelle produzioni con budget colossali, simili ai film blockbuster di Hollywood. Negli ultimi due anni si sono visti molti videogiochi, costati centinaia di milioni, che hanno venduto poco, o che sono anche andati bene, ma non a sufficienza da ricoprire gli altissimi costi. In ampie fette di pubblico si è diffuso un certo malcontento verso queste produzioni, che sono percepite come troppo standardizzate, troppo diluite, troppo affamate di soldi. A ragione o torto, questa narrazione sui “tripla A” è sempre più diffusa.
Clair Obscur ha saputo inserirsi perfettamente in questo clima. Il gioco è stato presentato come l’opera di un piccolo team, indipendente, appassionato, composto da persone che avevano abbandonato gli studi dei “tripla A” proprio per essere più liberi. Si è allora diffusa con grande velocità la narrazione del videogioco fatto “col cuore”, capace di rivaleggiare con i colossi del settore anche senza dover spendere centinaia di milioni.
Per capire come mai Clair Obscur si è proposto molto bene, bisogna prima osservare il panorama attuale. Siamo in un momento complicato, per i cosiddetti videogiochi “tripla A”: vengono chiamate così quelle produzioni con budget colossali, simili ai film blockbuster di Hollywood. Negli ultimi due anni si sono visti molti videogiochi, costati centinaia di milioni, che hanno venduto poco, o che sono anche andati bene, ma non a sufficienza da ricoprire gli altissimi costi. In ampie fette di pubblico si è diffuso un certo malcontento verso queste produzioni, che sono percepite come troppo standardizzate, troppo diluite, troppo affamate di soldi. A ragione o torto, questa narrazione sui “tripla A” è sempre più diffusa.
Clair Obscur ha saputo inserirsi perfettamente in questo clima. Il gioco è stato presentato come l’opera di un piccolo team, indipendente, appassionato, composto da persone che avevano abbandonato gli studi dei “tripla A” proprio per essere più liberi. Si è allora diffusa con grande velocità la narrazione del videogioco fatto “col cuore”, capace di rivaleggiare con i colossi del settore anche senza dover spendere centinaia di milioni.

C’è ovviamente della verità in tutto questo, ma come spesso accade nella comunicazione, entra anche in campo un forte gioco di percezione, in cui bisogna raccontarsi nel modo migliore. Prendiamo per esempio le dimensioni del team. Se si guardano i credits a fine gioco, ci si rende conto che ci hanno lavorato molte più persone rispetto a quanto è stato comunicato. Hanno dunque mentito? No, il team principale è effettivamente composto da un manipolo ristretto di persone. Gli altri sono collaboratori esterni, sempre presenti in ogni progetto. Anche un “solodev” (uno sviluppatore indipendente che fa tutto da solo) collabora quasi sempre con qualche altra persona, magari per farsi fare la musica del gioco, per il playtesting o altro.
È stata una scelta comunicativa ben precisa, una strategia per apparire piccoli, quasi artigianali, per conquistare la simpatia del pubblico. E ha funzionato. Non c’è un effettivo inganno. È semplicemente una narrazione costruita con attenzione, che ha saputo intercettare i desideri e le frustrazioni di tanti videogiocatori. Non è neanche niente di nuovo. Di solito la storia dell’underdog, del candidato sfavorito che riesce infine a vincere contro i “colossi”, attira da sempre l’attenzione. È come il piccolo Davide contro l’imponente Golia. Il fatto che Clair Obscur, il Davide della situazione, sia anche un ottimo videogioco è ovviamente un fattore di grande importanza, ma lo è anche portare avanti la corretta narrazione sul proprio prodotto.

OGGI IL MERCATO DEI VIDEOGAME E' DIFFICILE, SE SEI UN BLOCKBUSTER
Tanto nel cinema, quanto nei videogiochi, si sta assistendo a un cambiamento che riguarda le grandi produzioni multimilionarie. Molti blockbuster hollywoodiani che sulla carta erano dei successi assicurati hanno visto un risultato al botteghino molto al di sotto delle aspettative. Nel migliore dei casi sono andati a “break even”: hanno recuperato i soldi spesi. Lo stesso si è visto con i videogiochi. Diversi “tripla A”, videogiochi che costano 100 o 200 milioni (o anche di più) soffrono. Questo andamento non riguarda solo i nuovi prodotti, ma anche alcuni brand storici come Assassin’s Creed.
Dove sta il problema? Come sempre avviene in questi casi, non siamo davanti a un singolo fattore responsabile della crisi. C’è una pluralità di concause intrecciate. Nonostante ciò, è comunque possibile sottolineare alcuni elementi ricorrenti, che hanno portato i “tripla A” e i blockbuster a trasformarsi spesso in una potenziale trappola.
Per raggiungere un pubblico molto ampio, questi prodotti hanno bisogno di ingenti spese. Oltre a dover inseguire l’eccellenza tecnica (effetti speciali all’avanguardia, modelli poligonali dettagliatissimi…), sono anche costretti a spendere decine di milioni nella comunicazione, per far conoscere a tutti il prodotto. Ma per rientrare in queste enormi spese serve un pubblico sempre più ampio. Già qui ci si rende conto che è un cane che si morde la coda: più si spende per raggiungere nuovi utenti, più è necessario ampliare il pubblico per rientrare nelle spese.
Per fare ciò, bisogna andare al di fuori del pubblico di videogiocatori più appassionati (o dei cinefili sfegatati), per parlare a un’utenza più “casual”, che magari acquista un videogioco all’anno o va al cinema una volta all’anno. Questo pubblico presenta tante problematiche. Per prima cosa, non è fidelizzato, per cui oggi può dare i suoi soldi a un prodotto e domani a un altro. In secondo luogo è molto disperso, per cui occorre uscire dai canali di comunicazione più verticali per raggiungerlo (il che, di nuovo, aumenta i costi). In terzo luogo, questo pubblico è bombardato costantemente da tutta la concorrenza. Se quest’anno – tanto per fare un esempio banale – compra in massa Assassin’s Creed, acquisterà meno Call of Duty. Perché in generale non acquista più di uno o due videogiochi all’anno.
Aggiungiamo un ulteriore elemento di complessità: più un prodotto è trasversale e “per tutti”, maggiore è il rischio di trovarsi davanti a qualcosa di annacquato, privo di una forte identità. Come per tutti gli altri punti del discorso, non si tratta ovviamente di una regola generale, ma è una possibilità crescente. Ecco allora che si assiste a un altro circolo vizioso. Per sostenere i costi, i fan storici di un brand non bastano più e bisogna raggiungere nuovi acquirenti, ma per farlo si rischia di smarrire l’unicità di quel prodotto, scontentando i fan storici.
Va anche detto che il videogioco ha delle modalità differenti di monetizzazione, rispetto al cinema, oltre a una maggiore elasticità nei prezzi. Un altro modo per rientrare nelle spese è l’utilizzo di abbonamenti, microtransazioni, contenuti aggiuntivi a pagamento. Sulla carta, sono tutte modalità con cui è possibile continuare a monetizzare un videogioco nel corso del tempo, pubblicando man mano nuovi contenuti. E in qualche caso questo modello funziona alla perfezione: alcuni videogiochi, anche gratuiti, incassano centinaia di milioni ogni anno grazie agli acquisti interni al gioco. Ma anche qui ci sono tanti problemi. Tenere in piedi nel tempo un simile ecosistema di contenuti è un ulteriore costo e serve una base molto ampia di giocatori attivi (e paganti) per tenerlo in piedi. Per cui, appena si esce al di fuori dai casi di maggior successo, si entra rapidamente in un grande cimitero degli elefanti digitali. Inoltre, questo modello è accettato e diffuso nei videogiochi free-to-play (quelli gratuiti con possibili acquisti in game), in larga misura diffusi su telefono, ma è generalmente mal visto nei videogiochi “tradizionali” su console e PC.
Insomma, la situazione è complessa e non esistono semplici soluzioni. Va detto che, al momento, se la cavano molto meglio i videogiochi più piccoli, meno costosi. Perlomeno quando riescono a intercettare con chiarezza una nicchia di mercato. Anche il loro mercato è molto competitivo, ma almeno i loro costi più ristretti li portano ad aver bisogno di molti meno acquirenti per rientrare nelle spese.
Dove sta il problema? Come sempre avviene in questi casi, non siamo davanti a un singolo fattore responsabile della crisi. C’è una pluralità di concause intrecciate. Nonostante ciò, è comunque possibile sottolineare alcuni elementi ricorrenti, che hanno portato i “tripla A” e i blockbuster a trasformarsi spesso in una potenziale trappola.
Per raggiungere un pubblico molto ampio, questi prodotti hanno bisogno di ingenti spese. Oltre a dover inseguire l’eccellenza tecnica (effetti speciali all’avanguardia, modelli poligonali dettagliatissimi…), sono anche costretti a spendere decine di milioni nella comunicazione, per far conoscere a tutti il prodotto. Ma per rientrare in queste enormi spese serve un pubblico sempre più ampio. Già qui ci si rende conto che è un cane che si morde la coda: più si spende per raggiungere nuovi utenti, più è necessario ampliare il pubblico per rientrare nelle spese.
Per fare ciò, bisogna andare al di fuori del pubblico di videogiocatori più appassionati (o dei cinefili sfegatati), per parlare a un’utenza più “casual”, che magari acquista un videogioco all’anno o va al cinema una volta all’anno. Questo pubblico presenta tante problematiche. Per prima cosa, non è fidelizzato, per cui oggi può dare i suoi soldi a un prodotto e domani a un altro. In secondo luogo è molto disperso, per cui occorre uscire dai canali di comunicazione più verticali per raggiungerlo (il che, di nuovo, aumenta i costi). In terzo luogo, questo pubblico è bombardato costantemente da tutta la concorrenza. Se quest’anno – tanto per fare un esempio banale – compra in massa Assassin’s Creed, acquisterà meno Call of Duty. Perché in generale non acquista più di uno o due videogiochi all’anno.
Aggiungiamo un ulteriore elemento di complessità: più un prodotto è trasversale e “per tutti”, maggiore è il rischio di trovarsi davanti a qualcosa di annacquato, privo di una forte identità. Come per tutti gli altri punti del discorso, non si tratta ovviamente di una regola generale, ma è una possibilità crescente. Ecco allora che si assiste a un altro circolo vizioso. Per sostenere i costi, i fan storici di un brand non bastano più e bisogna raggiungere nuovi acquirenti, ma per farlo si rischia di smarrire l’unicità di quel prodotto, scontentando i fan storici.
Va anche detto che il videogioco ha delle modalità differenti di monetizzazione, rispetto al cinema, oltre a una maggiore elasticità nei prezzi. Un altro modo per rientrare nelle spese è l’utilizzo di abbonamenti, microtransazioni, contenuti aggiuntivi a pagamento. Sulla carta, sono tutte modalità con cui è possibile continuare a monetizzare un videogioco nel corso del tempo, pubblicando man mano nuovi contenuti. E in qualche caso questo modello funziona alla perfezione: alcuni videogiochi, anche gratuiti, incassano centinaia di milioni ogni anno grazie agli acquisti interni al gioco. Ma anche qui ci sono tanti problemi. Tenere in piedi nel tempo un simile ecosistema di contenuti è un ulteriore costo e serve una base molto ampia di giocatori attivi (e paganti) per tenerlo in piedi. Per cui, appena si esce al di fuori dai casi di maggior successo, si entra rapidamente in un grande cimitero degli elefanti digitali. Inoltre, questo modello è accettato e diffuso nei videogiochi free-to-play (quelli gratuiti con possibili acquisti in game), in larga misura diffusi su telefono, ma è generalmente mal visto nei videogiochi “tradizionali” su console e PC.
Insomma, la situazione è complessa e non esistono semplici soluzioni. Va detto che, al momento, se la cavano molto meglio i videogiochi più piccoli, meno costosi. Perlomeno quando riescono a intercettare con chiarezza una nicchia di mercato. Anche il loro mercato è molto competitivo, ma almeno i loro costi più ristretti li portano ad aver bisogno di molti meno acquirenti per rientrare nelle spese.