Raffaele Capperi: «Un lavoro dopo 23 colloqui. Poi mi hanno bullizzato»

Insulti e prevaricazioni per il 30enne di Monticelli con la sindrome di Treacher Collins, che si è licenziato dopo due anni da magazziniere

Paola Brianti
Paola Brianti
|14 giorni fa
Raffaele Capperi: «Un lavoro dopo 23 colloqui. Poi mi hanno bullizzato»
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«Per tutti è una pausa. Invece per me la mensa era diventata l’inferno: insulti, parole dure travestite da battute, risate. Mi sono licenziato e ora si ricomincia a cercare lavoro»: Raffaele Capperi, che ha imparato a coabitare con la sindrome di Treacher Collins, malattia rara che causa anomalie soprattutto alle ossa del volto, ma non è riuscito a convivere con lo spietato bullismo dei colleghi. Adulti, che l’hanno mandato in crisi a forza di prevaricazioni che non ti aspetti da persone tra i 20 e i 60 anni.
«Cosa ridi che hai la 104?», «Se non senti alza l’apparecchio», «Ma come mangi?», «Te la raddrizzo quella faccia»: è parte dell’orribile catalogo che il 30enne di Monticelli con la malattia del protagonista del film “Wonder” si è sentito dire dai colleghi di un’azienda piacentina in cui lavorava come magazziniere. Un lavoro sudato, «ottenuto dopo 23 colloqui. Perché per noi categorie protette la strada è davvero in salita» racconta Capperi. La legge del ‘99, varata con l’intento di valorizzare le capacità lavorative delle persone con disabilità e che dà alle aziende la possibilità di accedere ad incentivi e sgravi a fronte di assunzioni, si scontra con la dura realtà del mercato del lavoro, «in cui chi come me ha una malattia, fatica molto a rendersi economicamente indipendente».
E allora, finalmente, il 23esimo colloquio sembra essere quello giusto. Teneva a quel lavoro, non doveva perderlo, «facevo di tutto, i primi mesi ho cercato in ogni modo di farmi apprezzare. Appena entrato in azienda - ricorda - ho visto molta curiosità nei miei confronti, ed era del tutto normale visto che ero l’ultimo arrivato, una persona nuova». Non solo. Capperi è anche un influencer sui social, un volto noto della battaglia contro il bullismo, soprattutto nelle scuole, che lavorano tanto per scardinare tra gli adolescenti gli atteggiamenti aggressivi. Mai si sarebbe detto di incontrare gli stessi atteggiamenti sul posto di lavoro, proprio lui, che ha scritto il libro “Brutto e cattivo”, un’autobiografia su cosa significhi essere uno su cinquantamila in un’aula.
«E invece anche in azienda sono iniziati gli insulti da parte di alcuni colleghi, sempre sul mio aspetto». Spesso al momento del pranzo. «Inizialmente ridevo con coloro che ridevano di me per come mangio, per la mia voce - continua - speravo che mostrando che le loro parole non mi ferivano, avrebbero smesso. E invece no».
C’è stato l’episodio del compleanno, durissimo da sopportare: «Compio gli anni a fine febbraio - ricorda - e quest’anno non volevo organizzare niente. Non stavo bene con i colleghi ed era un momento difficile: avevo da pochi mesi perso la mia adorata nonna Giuseppina, un tumore me l’ha portata via a 68 anni. Ma hanno insistito che portassi qualcosa in azienda per un brindisi. Non si è presentato nessuno. Lì ho capito cosa voglia dire sentirsi soli».
Il dolore diventa presto anche fisico: «Ho cominciato a sentire il senso di nausea, le vampate di calore, non dormivo più, addosso avevo i sintomi dell’attacco di panico. Una volta è stata chiamata in azienda anche l’ambulanza». Fino a quando non si sono superati i limiti della convivenza civile: «Un giorno c’è stata una discussione sul posto del pranzo: un collega mi ha detto “alzati, lì ci sto io”, gli ho risposto, sono volati insulti» e dopo le parole grosse anche qualche spintone. Il limite era superato, da qui il licenziamento, che risale a luglio ma di cui da lunedì Capperi ha deciso di parlare anche sui social. «Ho provato a confrontarmi con il mio datore di lavoro, e anche con il responsabile risorse umane. Il bullismo però è rimasto. Non capisco perché le aziende spendano tante ore in corsi sulla sicurezza - dice - quando servirebbe un corso per far accettare gli altri, tutti, per imparare a rispettarsi». La chiamano educazione civica, dovrebbero insegnarla a scuola. Ma evidentemente non basta mai.