Daffe e Cevolotto oltre la "soglia" per dire ai giovani di avere coraggio
Il calciatore che lotta contro il razzismo dice al vescovo: «Sai che anch’io sono un po’ piacentino?»

Elisa Malacalza
August 1, 2025|3 giorni fa

Cos’hanno in comune il vescovo di Piacenza-Bobbio, Adriano Cevolotto, e il calciatore di origine senegalese Omar Daffe, che siedono uno accanto all’altro nella basilica di San Giovanni Battista dei Fiorentini a Roma, circondati da centinaia di giovani, ciascuno con una storia, un dolore, una forza, una preghiera? Qualcuno a colpo d’occhio, vedendo Daffe e Cevolotto, potrebbe dire che ad accomunarli è l’altezza, ma anche se Cevolotto, appassionato camminatore di montagna e ciclista, è un uomo alto, Daffe lo supera di almeno una spanna.
C’è di mezzo un’altezza che è invece morale, o un modo “alto” di vedere le cose: Daffe, da quando scelse di abbandonare con la sua Agazzanese il campo da calcio, stanco di insulti razzisti e feroci - cattivi - dalle tribune, da anni è diventato simbolo della lotta alla discriminazione. Vuole lottare per un mondo migliore, più giusto almeno, ed è la stessa cosa in cui crede il vescovo di origine veneta, al punto da farne missione e vocazione.
Uno è musulmano, l’altro è cattolico: però quando si sono stretti la mano al Giubileo, Daffe gli ha detto “Sai che anche io sono di Piacenza? La considero la mia seconda casa”. E Cevolotto lo ha invitato allora a passare a salutarlo, quando tornerà.
Cittadino onorario di Agazzano, Daffe è punto di riferimento dell’associazione Calcio Dilettanti Solidarietà, che ha sede a Castelsangiovanni; lavora nell’Ufficio Antirazzismo della Lega Nazionale Professionisti di Serie A. «Io sono qui per parlare di coraggio, ma credo che la mia sia una storia soprattutto di liberazione», ha detto al microfono, in basilica, con emozione. «Io ho avuto il coraggio di dire no, di non abbassare la testa, è vero, ma l’ho fatto soprattutto per i più giovani, pensando che se qualcuno prima di me avesse detto “Basta” forse io quel giorno non mi sarei trovato a vivere lo stesso incubo, la stessa necessità di scelta.