Film, successo e vanità. Franco Fabrizi divo di Cortemaggiore in lotta con l’anagrafe

Verso il centenario "sbagliato": l'attore era nato nel 1916, ma a tutti diceva di essere del 1926

Redazione
April 23, 2025|63 giorni fa
Franco Fabrizi in "Ginger e Fred" di Fellini
Franco Fabrizi in "Ginger e Fred" di Fellini
3 MIN DI LETTURA
Franco Fabrizi in un ruolo: il principe Gontrano Pantegani del Cacco in "Stanza 17-17 palazzo delle tasse ufficio imposte" (Michele Lupo, 1971). Una scelta bizzarra per un volto felliniano della prima ora, ma Gontrano, oltre a un marginalia delizioso nell’enciclopedia della commedia italiana, è un identikit del nostro: nobile decaduto, eterno adolescente dal sorriso smagliante e dall’orgoglio irresistibile, che sale sulle macerie dell’antico splendore senza perdere un grammo di onorabilità. Mai un capello fuori posto, nemmeno mentre nuota nella melma dei sotterranei che collegano la sua dimora - o ciò che ne resta - con l’appetitosa cassaforte del palazzo delle tasse. In lui, c’è tutto Franco Fabrizi, al secolo Francesco Fabbrizzi. Piacentino, di Cortemaggiore: lì nacque nel 1926 (nel 1916 all’anagrafe) e lì morì, questa è esatta, nel 1995.
Figlio di Enrichetta, cassiera del cinema Astra, e di Eugenio, barbiere, miscela esplosiva di passione e vanità. Un’infanzia di provincia come tante per un ragazzo di provincia non come tanti: troppo bello, troppo bravo, impeccabile anche quando non se lo poteva ancora permettere, perché aveva capito che ciò che bisogna saper indossare bene è innanzitutto la vita. Dopo la Seconda guerra mondiale, lavorò a Milano come modello e attore di fotoromanzi. Poi, i canti delle sirene di via Veneto non trovarono resistenza. Dolcevitaiolo avantilettera, esordì nel cinema in parti minori - "Cronaca di un amore" (Michelangelo Antonioni, 1950), "Ragazze da marito" (Eduardo De Filippo, 1952) - fino a una svolta chiamata Federico Fellini. "A pischello, la svolta nun c’ha età!", assicura il solito ignoto Tiberio (Marcello Mastroianni) nel terzo appuntamento della saga. Franco non ne era convinto e già nel provino per "I vitelloni" (1953) cominciò a togliersi anni. Scrisse il regista: "È un boy in una compagnia di riviste" - aveva maturato alcune esperienze teatrali accanto a Walter Chiari e Silvana Pampanini - "potrebbe essere un buon Fausto". Non buono, perfetto nei panni del divino provinciale collezionista di sogni e di espedienti per fuggire dalle miserie, lavoro e anagrafe compresi, della vita. Se lo portò addosso fino alla fine, un mantello da supereroe della bassa piacentina.
Fabrizi con Alberto Sordi in "Una vita difficile" di Dino Risi
Fabrizi con Alberto Sordi in "Una vita difficile" di Dino Risi
Stessa dritta via smarrita per Roberto, truffatore con velleità canore ne "Il bidone" (1955). Nel corso delle riprese, si ruppe il setto nasale cadendo dal rotor al Luna Park di Marino, scena ricreata ne "I quattrocento colpi" (1959) da François Truffaut: critico a Venezia durante la prima proiezione del film, era stato tra i pochi a capire la potenza del capolavoro maledetto di Fellini. "La prima preoccupazione? Toccarmi la faccia, dicendo: Non potrò più lavorare!", raccontava a "La settimana Incom". Ma continuò a farlo, eccome, tra molte altre cose, gettando "Cabiria" (1957) nel Tevere. Il decennio seguì le orme del seduttore sfacciato, adorabile e inaffidabile, da "La romana" (Luigi Zampa, 1954) a "Le amiche" (Antonioni, 1955), passando per i racconti romani ed estivi di Gianni Franciolini.
Dalle coste genovesi a quelle valenciane, Fabrizi lavorò agli ordini di Luis García Berlanga in "Calabuch" (1956), dove prese il ruolo dell’allora rossissimo Fernando Fernán Gómez, "Aragosta", proiezionista di giorno e contrabbandiere di notte in un paesino idilliaco divenuto tassello chiave della guerra nucleare. Ah, e altresì musicista a tempo perso, con tanto di strizzata d’occhio alla tromba di Gelsomina: di nuovo alla penna, Ennio Flaiano. La seconda svolta arrivò nel 1959 grazie al tassista Lambert, testimone di un assassinio nello straordinario noir di Édouard Molinaro "Appuntamento con il delitto", e al dottor Valdarena di "Un maledetto imbroglio" (Pietro Germi): il brutto pasticciaccio di via Merulana nato dalla penna di Carlo Emilio Gadda consentì a Franco di fare sfoggio della sua profondità drammatica e di un’ambiguità sfuggente come il confino tra il bene e il male.
Furono la porta d’ingresso a un periodo che legò il suo nome ad altri capostipiti del cinema italiano: "Una vita difficile" (Dino Risi, 1961), "Io la conoscevo bene" (Antonio Pietrangeli, 1965), "Signore e signori" (Germi, 1966). Fabrizi rese persino omaggio al lavoro paterno in "Morte a Venezia" (Luchino Visconti, 1970). Coincidenze cinematografiche: Serge Reggiani, figlio del barbiere del rione di Santa Croce a Reggio Emilia, l’aveva appena fatto ne "L’armata degli eroi" (Jean-Pierre Melville, 1969).
All’alba del nuovo decennio, si buttò nella mischia poliziesca: "La mala ordina" (Fernando Di Leo, 1972) aprì le danze di un triennio magnifico in cui "La polizia ringrazia" (Stefano Vanzina, 1972), "...chiede aiuto" (Massimo Dallamano, 1974), ... "ha le mani legate" (Luciano Ercoli, 1975). E non disdegnò le sfide, in particolare quando prese "L’ultimo treno della notte" (Aldo Lado, 1975), coltellata feroce alla borghesia al di sopra di ogni sospetto. Gli anni ’80 videro infine il suo ritiro da un mercato in radicale trasformazione, ma ci regalò ancora una manciata di personaggi indimenticabili, come il monsignore de "Il piccolo diavolo" (Roberto Benigni, 1988) e soprattutto il presentatore tv disposto a qualsiasi cosa pur di far salire gli ascolti in "Ginger e Fred" (1986), che gli valse uno scontro con Fellini a causa del doppiaggio e una candidatura al David di Donatello. Troppo poco, troppo tardi. Ulisse tornò nella sua Itaca emiliana, provato dalla malattia, come Gontrano, senza mai perdere la dignità, neanche quando il destino cambiò le carte in tavola. Si legge nell’epitaffio: "Finì con la mia terra. Finì col mio violino spezzato. E una risata rotta, e mille ricordi e nemmeno un rimpianto". Forse uno solo: Germi gli chiese di dare vita a un tale conte Raffaello Mascetti, ma Franco tentennò, disse che quegli "amici suoi" erano "I vitelloni" da vecchi. Difficile pensare a una definizione più bella. Così è la vita: anche per sbagliare ci vuole una classe sconfinata.  
Yolanda Fuertes García