Wednesday, September 10

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Nei segreti di "Ho conosciuto Kurt Cobain", il podcast indipendente di Paolo Maoret e Marco Degli Esposti

I due lo hanno presentato in tour, di recente anche nel Piacentino

Claudia Labati
|3 giorni fa
I due autori a una presentazione - © Libertà/Claudia Labati
I due autori a una presentazione - © Libertà/Claudia Labati
4 MIN DI LETTURA
L'intervista a Paolo Maoret e Marco Degli Esposti, autori di "Ho conosciuto Kurt Cobain" ha per me il sapore degli abbracci dopo le vacanze. Bentornati cari lettori Podcastari, riapriamo le danze con un podcast a cui tengo moltissimo: una produzione indipendente di Piombo Podcast, presentato live al Bleech Festival lo scorso fine settimana. Io e gli autori siamo diventati amici dopo la mia prima recensione di mesi fa in cui, da vera entusiasta quale sono rimasta, consigliavo il loro podcast esortando all'ascolto immediato. Lo faccio ancora oggi perché per me rimane un bellissimo esempio di come l'intreccio narrativo, il sound design e la musica siano il cuore dei podcast. HCKC è un viaggio negli anni '90 in cui Marco Degli Esposti e Paolo Maoret raccontano i concerti italiani dei Nirvana intrecciando testimonianze, ricerca storica e musiche originali. Ne nasce un road movie sonoro, autentico affresco degli anni '90 e della loro eredità sociologica e culturale.
Ho conosciuto Kurt Cobain è il primo podcast della casa di produzione indipendente Piombo Podcast. Come si dice "buona la prima"... un podcast che ha avuto ascolti strepitosi e avete anche ricevuto una menzione speciale al POD di Piacenza, agli Italian Podcast Awards. Ora le presentazioni dal vivo. Qual è l'origine del progetto e dell'idea di questo podcast?
Marco: «Noi siamo amici da lungo tempo e abbiamo sempre lavorato a tanti progetti insieme. L'idea è nata da Paolo che, cercando di capire che tipo di podcast avremmo voluto fare, una sera mi chiama e mi dice: "Ho capito la strada da seguire: chiedersi che cosa avremmo voglia di ascoltare adesso". Così è iniziato il brainstorming che ha portato alla genesi del podcast».
Paolo: «È vero. Frequentavo la Chora Academy all'epoca e cercavo un'idea che ci rappresentasse e ci appassionasse. Mi capita sotto gli occhi un post celebrativo dei concerti dei Nirvana in Italia (i Nirvana hanno festeggiato il trentennale nel 2024) e ho pensato: questa è la ricerca che voglio fare. Con Marco abbiamo deciso di raccontare non la solita biografia della band, ma gli anni dei loro concerti italiani, con testimonianze e aneddoti. Abbiamo questo amico comune, Tizio Sgarbi che nel podcast è il protagonista dell'episodio della giacca e così la seconda lampadina si è accesa. Partiamo da lì e raccontiamo la storia come un road movie sonoro».
La copertina del podcast
La copertina del podcast
Quindi non un racconto monografico, ma un viaggio che tocca diverse tappe corrispondenti a tanti aspetti degli anni '90. Mi ha colpito la struttura narrativa che si intreccia in maniera imprescindibile con il lavoro musicale di Marco. Tu hai composto tutte le musiche originali, senza usare brani dei Nirvana.
Marco: «Esatto. I diritti ci impedivano di usare i brani originali, quindi ho scritto dodici brani per il podcast. Abbiamo però utilizzato estratti autentici dei live: applausi, introduzioni, voci. Ogni suono proviene davvero da quel concerto, esattamente da quel live lì».
Trovo interessante questo connubio non solo di amicizia ma co-autoriale: Paolo con la ricerca e la scrittura, Marco con la musica e il sound design. Anche la sigla dei Super Fat Ginger Cat dà una grande forza narrativa. La vera chiave di un podcast oltre alle voci di chi quegli anni li ha vissuti dal vivo. Quante persone avete intervistato?
Paolo: «Più di trenta, forse quaranta. Alcune interviste sono rimaste solo telefoniche, ma la maggior parte le abbiamo fatte dal vivo. È stato un viaggio bellissimo in giro per l'Italia che è diventato poi metanarrativo. Abbiamo anche inserito il nostro percorso di ricerca all'interno della narrazione, rendendolo parte del podcast stesso. È stato impegnativo ma divertente. Abbiamo anche dovuto fare scelte difficili: tagliare interviste e parti bellissime per mantenere l'equilibrio narrativo. Crediamo molto che il lato autoriale della musica e della sonorizzazione sia fondamentale: ci siamo impegnati a esprimere parti che purtroppo non entravano nello schema narrativo con la sonorizzazione giusta. Tutto questo meticoloso lavoro di equilibrio e ricerca ci ha divertito moltissimo».
Mi ha colpito il modo in cui avete collocato la narrazione dei concerti dei Nirvana in Italia - che comunque si percepisce amate molto - nel contesto storico e politico: il muro di Berlino, la guerra in Jugoslavia, l'era predigitale... quando ancora si faceva la fila per il concerto e si sapevano le cose per passaparola. Perché questa scelta?
Paolo: «Era fondamentale dare un quadro storico. La narrazione va dalla prima volta che il furgone dei Nirvana entra in Italia fino alla morte di Cobain. Abbiamo usato riferimenti storici come pilastri per far calare l'ascoltatore in quell'epoca. Io vengo dalla scuola di scrittura di Lucarelli, che insegna sempre a partire dall'inquadratura storica per orientare l'ascoltatore in una realtà magari non vissuta».
Marco: «La musica è figlia della società. Non potevamo ignorare i grandi avvenimenti del tempo. Alcuni ricordi degli intervistati lo dimostrano bene: concerti saltati per via della guerra nei Balcani, o la vita quotidiana nella scena alternativa italiana».
I due autori
I due autori
In effetti il vostro podcast diventa anche un racconto antropologico, non solo musicale.
Paolo: «Esatto. Abbiamo raccontato un mondo che non c'è più: il passaparola, le radio, i locali, la ricerca dei dischi. È una sorta di archeologia musicale e sociale».
Marco: «Aggiungo anche la grande analogia che c'era tra chi andava a vedere i concerti dei Nirvana e i Nirvana stessi: anche loro venivano da quel pubblico lì, solo che avevano le chitarre».
Mi interessa anche il tema delle produzioni indipendenti. Mi sembra che abbiate colto un momento particolare: la crescita della scena podcast indipendente. Cosa significa per voi essere produttori indipendenti oggi con Piombo Podcast?
Paolo: «Negli ultimi anni la scena è esplosa. Noi ci siamo inseriti senza calcolo, ma con la voglia di fare qualcosa che avremmo voluto ascoltare. Indipendente non deve significare amatoriale: volevamo un prodotto che potesse stare allo stesso livello delle grandi produzioni. Significa libertà creativa, anche se spesso non si guadagna. Per "Ho conosciuto Kurt Cobain" non avevamo velleità economiche, ma siamo comunque riusciti a rientrare nelle spese. Però ci stiamo divertendo tantissimo».
Marco: «Lavorare da indipendenti significa avere il minor numero di mediazioni possibile, ovvero sviluppare l'idea in purezza. Questo podcast è nato solo dalle nostre idee, senza editori o produzioni esterne. È stato un anno e mezzo di lavoro e una vera scommessa, ma fatta con serietà, convinzione e meticolosità professionale».
Mi sembra di capire che potreste avere materiale per una seconda stagione… io ci spero!
Marco: «Ogni scelta musicale o autoriale che abbiamo adottato è stata ponderata. Per noi questo podcast è come un figlio... ne avremo altri!».
Paolo: «Esatto. Speriamo di riuscire a portare avanti altri progetti con lo stesso approccio».